METECA, paesaggi sonori – Sandro Fresi

 

Nel riascoltare, a distanza di vent’anni, le tracce di Tàjrà, si aprono paesaggi sonori che il tempo non ha minimamente scalfito nella loro sorprendente bellezza. E riaffiorano, come in un caleidoscopio, i luoghi, i volti e le parole che diventano suono, in una koinè di idiomi e di accenti che si sciolgono in canto.

Che si trattasse poi di canto monodico o polivocale di tradizione, nessuno degli interpreti credo avesse la percezione di essere un artista. Tuttavia suppongo nutrisse, non di rado dopo una iniziale diffidenza, la recondita speranza di lasciare traccia di sé, in un sofferto equilibrio tra la necessità di custodire i propri saperi musicali e la consapevolezza di doverli consegnare, pena l’oblio, alla memoria di generazioni future.

Ritornano così alla mente i modi gentili e misurati di Maria Multineddu, forse l’ultima griot gallurese, mentre accorda la sua chitarra negli antichi modi tempiesi sui versi colti e popolari di don Gavino Pes, il cui sterminato repertorio è, ancora oggi, fonte di ispirazione di numerosi musicisti e cantori di “tasgia” come il Coro Gabriel.

Voci incantatrici e ieratiche, come quelle dell’Arciconfraternita della Santa Croce di Nulvi, custode dei repertori carmelitani, dei Cantori di Castelsardo nel loro immutato rituale del Lunissanti o quelle profonde e calmanti del Cuncordu di Santulussurgiu. Voci spavalde, come quelle delle donne del coro “Su Veranu” di Fonni, che sfatano ataviche convenzioni che vogliono le donne sarde relegate a salmodiare nenie nelle chiese vuote. A tutto ciò si aggiunge una nutrita schiera di giovani artisti e sperimentatori che in quegli anni di appassionata ricerca hanno saputo – o comunque tentato di – mediare un’attenta ricognizione degli archetipi vocali e strumentali con le loro abilità e competenze, regalandoci trame sonore di grande suggestione.

E, sebbene non esaustivo di quel fermento creativo, Tàjrà rimane, nella sua corposa produzione che ora trova la sua efficace declinazione in METECA, un felice documento sonoro sul nostro patrimonio musicale e linguistico che nazioni o comunità più lungimiranti avrebbero già adottato come audiolibro di testo fin dalle scuole primarie.

Riascolterò ancora negli anni e con piacere questi fotogrammi sonori di grande impatto emotivo che attraversano abissi temporali e territori dell’anima, regalando, come sempre, bellezza senza tempo.

METECA, SoundscapesSandro Fresi

 

As one listens to the Tàjrà tracks, twenty years on, we encounter soundscapes whose astounding beauty has not been tarnished in the slightest by time. And, as in a kaleidoscope, the places, faces and words that become sound re-emerge, in a koine of idioms and accents that melt into song. Be it traditional monodic or multi-vocal singing, I believe that none of the performers had the perception of being an artist. However, I suppose that, after some initial misgivings, it was not infrequent for them to nurture the hidden hope of leaving behind traces of themselves, walking a tightrope between the need to safeguard their musical knowledge and the awareness that it must be handed over, under penalty of oblivion, to the memory of future generations.

Thus, the pleasant and simple manner of Maria Multineddu, perhaps the last of the Gallurese griots, comes to mind as she tunes her guitar as they did in Tempio long ago, to the refined and popular verses of Don Gavino Pes, whose vast repertoire is, still today, the source of inspiration for numerous musicians and “tasgia” singers such as the Coro Gabriel.

Enchanting and hieratic voices, such as those of the  Arciconfraternita della Santa Croce di Nulvi, guardians of the Carmelite repertoires, the Cantori di Castelsardo in their unchanged ritual of the Lunissanti or the deep and soothing tones of the Cuncordu of Santulussurgiu.

Bold voices, like those of the women of Fonni’s “Su Veranu” choir, who flout atavistic conventions that want Sardinian women relegated to chanting dirges in empty churches. Add to this a large group of young artists and experimenters who in those years of passionate research were able – or at least tried to – mediate a painstaking survey of the vocal and instrumental archetypes with their skills and competencies, giving us fascinating sound weaves.

And, despite being a non-exhaustive picture of that creative ferment, Tàjrà is an extremely rich final product that is so perfectly expressed in the METECA project and continues to be an excellent sound document on our musical and linguistic heritage, which more far-sighted nations or communities would have already adopted as an audio textbook even at elementary school.

As time goes by, I will take pleasure in listening to these sound images whose great emotional impact crosses temporal abysses and the territories of the soul,  offering us,  as always,  timeless beauty.

Noi, circondati da acqua e sale,

pensiamo in piccolo per necessità.

Abbiamo esplorato il sottosuolo locale:

la terra ha cantato.

Allora l’intuizione è diventata ricerca,

scoperta la vena d’acqua sommersa;

così METECA è riemersa.

Ma questo non è tutto.

C’è ancora terra sotto,

e acqua, e ricche vene di grano.

Ci sono altre voci nascoste,

sentiamo cantare anche quelle,

ci scusiamo con loro per lo spazio non spartito,

una pausa breve, speriamo.

La terra può ancora cantare… lairà… tairà… Tàjrà.

We, surrounded by water and salt,

are forced to think small.

We explored the local subsoil:

the earth sang.

Then intuition became research,

the submerged water vein was discovered;

thus, METECA re-emerged.

But that’s not all.

There is another land underneath,

and water, and rich rows of wheat.

There are other hidden voices,

we hear them singing too,

we apologise to them for the space

that has not been shared, a short pause, we hope.

The earth can still sing… lairatairaTàjrà.